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- Introduzione[1]
Alla periferia est di Roma, esiste un esperimento di rigenerazione urbana, dove l’arte diventa letteralmente la trincea per una comunità composta da migranti giunti in Italia dal Perú, dall’Ecuador, dall’Africa del Nord e dall’Est Europa. Questo posto si chiama Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia, un gioco di parole che riferisce la visione condivisa dai suoi creatori e dai suoi abitanti: una società integrata, un luogo alternativo, che rivendica il diritto ad abitare spostandolo di là della speculazione immobiliare.
Localizzato al civico 913 di via Prenestina, il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz _città meticcia (MAAM) occupa le strutture dell’ex salumificio Fiorucci, lasciato in stato di abbandono per diversi anni. Dopo un duro processo di rigenerazione, il MAAM oggi è un centro d’attività creativa che coinvolge attivisti dissimili mossi da ideali comuni: da una parte i duecento migranti e senza tetto che nel 2009 hanno occupato la fabbrica per abitarla, dall’altra i curatori, i creatori, primo fra tutti l’antropologo Giorgio de Finis, e gli artisti che con le loro opere hanno eretto una sorta di resistenza alla minaccia di sgombero. Il risultato è un luogo in cui si attiva una relazione simbiotica tra la gente che tutela l’arte e l’arte che sostiene il vivere quotidiano.
Si è scritto già tanto su questo spazio unico, la cui presenza si è vista rinforzata dall’instancabile promozione in cataloghi, nel documentario “Space Metropoliz”[2] e su Google Street View, che permette all’utente di esplorare gli spazi del MAAM in una visita virtuale.
Questo contributo si focalizza sull’analisi dell’eccezionale natura sincretica del MAAM, soffermandosi in particolare sulla problematica della memoria del luogo, sulla relazione tra arte e vivere quotidiano e sul patto comunicativo altamente interattivo che propone a i suoi visitatori.
- Breve nota metodologica
L’articolo nasce dall’incontro tra i cultural studies e l’analisi semiotica, scaturito nell’ambito di un’esperienza di didattica laboratoriale condotta insieme in qualità di tutor di un gruppo di studenti[3] per il corso di Semiotica della città e dei luoghi del consumo di Isabella Pezzini.[4] La nostra collaborazione non si intende compiuta in questo saggio, non solo a causa della complessità dell’oggetto trattato, ma anche per via degli stimoli che la prospettiva multidisciplinare ha dato.
Il MAAM è apparso sin dall’inizio come un oggetto semiotico interessante ma al contempo problematico. Il metodo etnografico, che ci ha visto impegnate in una serie di notazioni, sopralluoghi, interviste e colloqui[5], ci ha permesso di avanzare un’ipotesi di senso dinanzi a una forma dell’espressione che appare chiaramente non stabilizzata. D’altra parte l’analisi semiotica che guarda allo spazio in quanto sistema significante, ci ha permesso di riconoscere al suo interno soggettività e intersoggettività e di interrogarci sulla sua efficacia simbolica. Dai primi sopralluoghi sono emersi infatti alcuni interrogativi sulle strategie discorsive di costruzione degli effetti di senso e sul problema della conservazione del ricordo e della ricostruzione della memoria del luogo per mezzo di oggetti già esistenti cui il fare dei soggetti attribuisce nuovo senso e sui modelli di fruizione che in base a essi si ricostituiscono.
- L’esperienza del MAAM
“Scopri l’arte tra le rovine e meravigliati”, potrebbe essere la massima del MAAM, che si presenta al visitatore come una zona creativa, a tratti zona di guerra. Tuttavia, il deterioramento che le opere subiscono è parte centrale dell’incanto di questo museo e del suo essere eccezionale, in quanto contiene interventi di street artist e altri artisti contemporanei il cui godimento è arricchito dal loro essere transitori. Sembrerebbe che quanto più alterato sia un murale per via dell’umidità, maggiore è il suo impatto emotivo, in quanto il danno rinvierebbe alle condizioni della sua esistenza e alla funzione di protettore della comunità che l’ha ispirato.
Mosaico di materiali, tecniche e personali forme di espressione artistica, il MAAM è il prodotto di un lavoro collettivo e in divenire, giacché gli artisti continuano ad arrivare per coprire con le loro opere ogni superficie disponibile. Chi sarebbe il visitatore modello del MAAM? A livello ideologico, si aspetta che egli accetti la premessa del luogo e almeno in parte capisca gli ideali che permettono la sua esistenza. A livello delle competenze d’uso, questo museo propone un atteggiamento partecipativo che richiede di cercare, immaginare, scoprire i dettagli negli angoli che a prima vista sembrerebbero vuoti. In qualche zona, il visitatore deve addirittura illuminare la strada o avvicinarsi ai muri con la torcia del telefonino accesa per poter percepire i dettagli delle opere. Anzi, non deve avere nessun timore nello sporcarsi le mani e attraversare corridoi stretti e passaggi non sempre illuminati. Infatti, l’interattività è promossa proprio dal museo che invita apertamente a fotografare, toccare, diventare parte della mostra. In una visita libera non ci sono traiettorie prestabilite ma itinerari molteplici, appena limitati dalla privacy delle famiglie o dallo stato di qualche stanza che potrebbe rappresentare un rischio per la sicurezza. Esiste, ad esempio, una camera intera riempita da piccoli robot di legno e cartone che rappresentano la diversità delle culture. Questa stanza ha un tetto che è sul punto di crollare per via dell’umidità ma anche in quel caso, in condizioni estreme di deterioramento, l’arte offre un’interpretazione ottimista: un varco nella parete rappresenta la luce alla fine della galleria, la speranza d’integrazione.
Se si tratta di una visita guidata, si aggiunge una certa aria di formalità che ricorda l’esperienza dei musei tradizionali perché i volontari offrono ampia informazione sugli autori, contesti e momenti di creazione delle opere. Tuttavia, il carattere meticcio del MAAM, che è allo stesso tempo centro abitato e museo, promuove incontri inaspettati. Non è strano cioè che gruppi di bambini si avvicinino a chiacchierare con i visitatori per mostrare orgogliosi “la loro casa”.
L’opposizione del pubblico e il privato è una costante che produce un’esperienza di visita unica: l’arte s’infiltra nella vita degli abitanti, mentre loro continuano a ispirare le opere. In questo il primo museo abitato al mondo si crea uno spazio di regole particolari dove ad un certo punto si chiede al visitatore di condividere per un attimo le condizioni di chi occupa una ex fabbrica in rovine, vivendo una interattività che nasce dalla mancanza di risorse ma si compensa con un carico aumentato di spirito creativo.
- Il gioco del MAAM
Come osserva Jurji M. Lotman, lo studioso capofila della scuola di Tartu-Mosca, ogni elemento – sia esso un testo o un frammento di linguaggio – va considerato a partire dai rapporti di reprocità che intrattiene con gli altri elementi. La questione dell’eterogeneità viene letta così nei termini di una condizione caratterizzante la semiosfera, termine che il semiologo russo impiega in analogia con la biosfera di Vernadskiji, per definire uno spazio semiotico multi-livello circoscritto al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi. Tale visione pone l’accento sulla coesistenza dei linguaggi e sull’esigenza di traducibilità. Lotman impiega la metafora del museo – di uno spazio nel quale convivono elementi diversi tra loro (oggetti, iscrizioni, istruzioni, i visitatori stessi ecc.) – per restituire l’idea di un sistema che presenta una irregolarità della struttura che si esprime in elementi dissimili quasi intraducibili tra loro, che determinano una tensione tale da comportare la creazione di nuova informazione (Lotman, 1985: 64)[6]. Se guardiamo al MAAM, vi ritroviamo un po’ di quella condizione di produzione di senso di cui ci parla Lotman: la specificità che lo contraddistingue da altri oggetti somiglianti non è data dal suo essere un caso di rigenerazione urbana che si serve dell’arte per riconquistare uno spazio orfano, ma si costituisce sulla base di un discorso multiplo, pluri-isotopico, articolato intorno a tre elementi egemoni: la creatività, il museo e l’abitare. Ecco che l’esistenza di cose diverse nello stesso posto ci permette di pensare a un laboratorio che si costituisce come invenzione a partire da regole rigorosamente limitative, quelle appunto della fabbrica. Vi ritroviamo così quell’idea maturata da Lotman, quando parla della natura artistica delle stampe popolari russe, che a mio avviso suggerisce una visione dei modelli di fruizione ispirati dal MAAM: esso determina uno spazio complesso e ibrido, in cui il ruolo del visitatore non consiste semplicemente nel fare un percorso (predeterminato o meno che sia), ma spinge la riflessione al di là dell’idea di spazio museale classico o della dimensione interattiva di alcuni musei contemporanei. Il MAAM fa sì che il visitatore giochi con il testo e al testo (Lotman 2009)[7]; egli ne osserva il materiale, gli oggetti artistici, le immagini della memoria della fabbrica convocate dalla conservazione degli strumenti di macellazione; può interagire con gli oggetti, non attraverso una concessione programmata, ma al contrario per mezzo della mancanza di un’interdizione; al contempo, gli oggetti artistici sono sprovvisti di istruzioni, di un testo che orienti il visitatore disponendolo a determinate scelte interpretative. Tuttavia, una volta a settimana, come già precisato (Cfr. par. 2), è possibile prenotare una guida che porta il visitatore alla scoperta delle origini e degli sviluppi del MAAM, degli interventi artistici e dei suoi spazi ibridi. Difatti, la visita termina proprio in uno spazio nel quale il visitatore può decidere se tornare indietro o restare per fare un’esperienza insolita: mangiare i piatti della cultura gastronomica preparati dalle persone che vi abitano e sostare in uno spazio comune solitamente frequentato dagli studenti delle accademie, da artisti e residenti. Da informazioni standardizzate si passa così a forme di comunicazione estremamente flessibili, che rispecchiano la varietà degli stili e delle forme di riappropriazione degli spazi abbandonati e prima adibiti ad altri usi. Già all’esterno è infatti possibile osservare una contrapposizione tra elementi urbani che segnalano una certa continuità del tratto stradale e proprietà plastiche e figurative che fanno del MAAM un elemento di rottura della continuità: la via Prenestina, in quel punto, cambia rispetto alla parte che va verso il centro della città, diventando un luogo di passaggio, a doppia corsia, particolarmente trafficato nei giorni feriali. Vi si trovano inoltre fermate dell’autobus e, disposti frontalmente rispetto al MAAM, due punti vendita di accessori sportivi e calzature di grandi catene commerciali la cui uscita è obbligata e direttamente frontale alla facciata del MAAM. Il tragitto è rotto dall’attesa dell’inatteso (Greimas 1988)[8]: laddove il fruitore vi passi per la prima volta è attirato dalla policromia della facciata e dalla dilatazione delle forme sul piano della superficie murale, resa da quelli che rappresentano casi estremi. Potremmo parlare di una testualità che richiama altre esperienze del visitatore (più o meno accidentale), in un processo di attualizzazione delle forme espressive. Si tratta infatti di una trasversalità delle forme semiotiche, e in particolare di una ripresa di materiali già esistenti. Vi riconosciamo il ritratto di Malala Yousafzai, vincitrice del Premio Nobel per la pace 2014, realizzato dall’artista brasiliano Eduardo Kobra. Il titolo Peace è ricostruito attraverso l’uso dei simboli religiosi che ne rendono immaginabile la lettura.
Dal punto di vista cromatico, la ricchezza delle tinte, che non si sovrappongono, ma si armonizzano, dà maggiore risalto al volto, unitamente al chiaro-scuro, che lo incornicia esasperando la profondità e la drammaticità dello sguardo. Sulla stessa facciata, si trova il murale Piedad di Borondo, dove il corpo nudo non è preso nella sua miseria, ma nel suo essere fusione nell’altro, sensibile e tormentato; aspetto reso ancora più evidente dalla dimensione cromatica delle sfumature terra e dalle linee non nette. Più avanti il busto di un uomo con lo sguardo rivolto verso l’altro, dal titolo In alto, realizzato dagli italiani Lex & Sten, emerge verticalmente rispetto all’orizzontalità determinata dagli altri due. La resa cromatica è caratterizzata da uno sfondo bianco in contrasto con le linee nere, che esasperano i tratti del volto, attraverso una particolare tecnica di ritaglio dello stencil.[9] La monumentalità delle figure, la ricchezza dei particolari, l’eterogeneità della dimensione cromatica, i contrasti delle linee e delle forme, stimolano in diversi modi l’osservatore spinto a interrogarsi anche sugli interni dell’edificio. L’ingresso è segnalato da un varco che svolge la funzione di confine. Il limite, dato dal cancello, assume il valore di soglia grazie alla presenza di altri elementi: la dimensione privata è evidenziata dalla cassetta delle lettere, mentre quella pubblica del museo e dello spazio artistico-culturale è comunicata dal segnale turistico che fa il gioco del “come se”.
Tale alternanza si sviluppa non solo nel rapporto tra interno ed esterno, ma ci introduce a un’articolazione degli spazi di là dal cancello e alle strategie di costruzione della significazione.
- Tra scena e retroscena verso la costruzione del ricordo
Attraversare il MAAM vuol dire negoziare di volta in volta la propria posizione all’interno dello spazio. Sin dall’inizio il soggetto si trova all’interno di uno spazio non completamente chiuso, che figurativizza non solo il tema della memoria della fabbrica, attraverso la conservazione degli strumenti della macellazione e l’immagine degli animali pronti a esser abbattuti, ma anche quello della costruzione della memoria collettiva, con particolare riferimento al tema dello straniero e dell’immigrato, figurativizzano ad esempio da un’opera che fa una sorta di collage di oggetti appartenenti a coloro che hanno perso la vita in mare.
A questi però vi si aggiungono degli spazi di retroscena cui il visitatore non può accedere, se non con lo sguardo e parzialmente: sono le parti abitate non completamente distinti dagli spazi dell’esposizione. In questo caso il regime di visibilità non è totale. Tuttavia il soggetto è spinto non solo a interagire con gli oggetti esposti per comprendere la qualità dei materiali, ma anche dalla curiosità verso qualcosa che è insolito, se partiamo da uno spazio espositivo, e che non può osservare nella sua interezza. Possiamo infatti guardare ed essere guardati dagli abitanti di Metropoliz. Inoltre la dimensione privata del vivere quotidiano dei residenti entra in quella pubblica, modificando i modelli di fruizione dello spazio pubblico dedicato all’arte: i bambini interagiscono con la guida e con i visitatori (Cfr. par. 2). Tra esposizione e inaccessibilità, gli spazi di retroscena, quelli dell’abitare, si distinguono dagli spazi della scena, di maniera non del tutto netta, mettendo in gioco soggettività ibride. Negli spazi abitati, le donne battono i tappeti, quasi fosse un rituale svolto in un momento specifico della settimana, e nel loro fare osservano e si lasciano osservare; stessa cosa per coloro che abitano quegli spazi ma al tempo stesso interagiscono con il visitatore fornendogli determinate informazioni relative a Metropoliz, alle sue origini e allo stato attuale. In questo modo, le posizioni di osservatore e informatore si incastrano (voler vedere e voler essere visto). Inoltre in un piano superiore è possibile visitare gli spazi dedicati all’apprendimento, dove i minori, prevaltemente di origine rom, trascorrono il tempo del doposcuola, restando tuttavia all’interno di uno spazio creativo, segnato da una presenza artistica forte che rende omaggio alla funzione del luogo: molte delle opere raccontano l’infanzia, i temi del vivere insieme e della scoperta.
Il confine tra proprio e altrui e tra due semiosfere, quella del risiedere e quella degli spazi espositivi, diviene sempre più permeabile tanto da rendere difficile capire dove finisce l’uno e comincia l’altro.
Il MAAM mantiene i tratti distintivi della fabbrica, e non solo, esso afferma lo stato di abbandono, non maschera e non dimentica. In tal senso, non possiamo parlare di un atto di cannibalizzazione dello spazio della fabbrica da parte di uno spazio museale, tantomeno possiamo parlare semplicemente della rigenerazione di uno spazio abbandonato ora destinato a nuovi usi. Parleremo piuttosto di una traduzione tra due semiosfere dalla quale germinerebbe un terzo testo del tutto nuovo e carico di nuova informazione, di un senso inedito e di inediti modi di sentire. Il viaggio nel MAAM infatti fa leva proprio sul coinvolgimento del visitatore: egli può giocare col testo e al testo, sperimentare la propria esperienza in uno spazio a tratti affliggente e a tratti ludico, passare per più investimenti modali, da un poter fare a un sapere fare e a un non poter non fare. La sua percezione dunque non è più solo cognitivo/spettacolare, ma è anche corporea, in una ricerca di fusione, che unitamente alla presenza degli strumenti e dei percorsi, ai murales che raccontano le fasi della macellazione, all’opposizione luci/ombre, immette in una dimensione disforica, che sollecita l’identificazione.
- Conclusioni
Nel suo essere effimero e illegale, il MAAM si presenta come un testo ibrido e ambiguo: dialoga con la street art, ma parte dalla strada per inglobarla in un’esposizione che non è chiusa, ma non è del tutto aperta. È uno spazio in cui si definisce un percorso pluri-isotopico della memoria condivisa e dell’altro, ma al tempo stesso è un esperimento sociale – multiculturale e plurilinguistico –, che utilizza l’arte come opera di fortificazione, da qui la metafora della trincea, che sposta l’accento sul conflitto, figurativizzato da uno dei primi interventi artistici in cui il visitatore si imbatte.
Per il suo carattere periferico, il MAAM si allontana dallo stereotipo della Città Eterna, ma la sua esistenza conferma la vocazione di Roma per l’arte e la bellezza. Ricorda anche che Roma è già una città meticcia, anche se ancora fa fatica a riconoscersi come tale. È un caso di riuso di spazi prima destinati ad altro, si erge sul preesistente, ma non lo cancella, non lo ripulisce delle sue specificità, non prende le parti originali della vecchia struttura e le rinchiude in una teca, e nemmeno rifà le cose così come erano; al contrario lascia che le cose non perdano la propria identità, giocando invece sulla relazione tra elementi apparentemente distanti, come il ritratto denso di particolati costitutivi di un’epidermide parlante di Mauro Maugliani esposto al fianco di oggetti di fabbrica.
In tal senso, cambia il tipo di effetto che si produce sull’abitante e sul visitatore, ancor più spinto a un coinvolgimento patemico.
[1] L’articolo nasce da una riflessione comune ed è espressione di un progetto di ricerca che aspira a proseguire. Per chiarezza, Cristina Greco ha scritto la Breve nota metodologica e i paragrafi 3, 4; Elia Cornelio-Marí l’Introduzione e il paragrafo 2. Le Conclusioni sono state scritte insieme.
[2] https://youtu.be/R55p-aI0jr0.
[3] Gli studenti che hanno costituito il gruppo di ricerca sul MAAM sono Alessandra Berti, Ignazio Gattuso, Gianluca Giordani, Flaminia Salusest.
[4] Il corso di Semiotica della città e dei luoghi del consumo, di cui è titolare Isabella Pezzini, si è tenuto nel secondo semestre del 2016 presso il Coris, Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma.
[5] I sopralluoghi sono stati effettuati tra maggio 2015 e giugno 2016. I colloqui e le interviste sono stati effettuati nel mese di maggio 2016. Dalle osservazione è scaturita un’intervista strutturata al fondatore del MAAM, l’altropologo Giorgio de Finis, pubblica in Rethink Urban Space da Lavoro culturale, http://www.lavoroculturale.org/il-maam-di-metropoliz_citta-meticcia/.
[6] Lotman, Juri M., 1985, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo delle strutture pensanti, a cura di S. Salvestroni,
Venezia, Marsilio.
[7] Lotman, Juri M., 2009, La natura artistica delle stampe popolari russe, Ferrara, Book Time.
[8] Algirdas Julien Greimas, Dell'imperfezione, Sellerio Editore, Palermo, 1988 (De l'imperfection, P. Fanlac, Paris, 1987). Trad. it. di Gianfranco Marrone.
[9] I due artisti hanno ideato una tecnica di utilizzo dello stencil cui hanno dato il nome di hole school. Da qui l’assonanza con l’old school: espressione impiegata nella cultura hip hop per riferirsi a ciò che ha fatto scuola nelle diverse discipline, dal writing all’mcing e al breaking.