Found footage Art. Conversazione con Péter Forgács | LORENZO MARMIROLI, VALENTINA VALENTINI, GIUSEPPINA VIGNOLA

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In ogni suo film c’è una biografia, la storia di un essere umano. Ci può raccontare la sua biografia artistica?

Un mio zio, nell’estate del 1956, riuscì a uscire da un paese dell’Unione Sovietica, l’Ucraina. Era un pittore, e durante il periodo che stette nella nostra casa a Budapest, qualche volta mi invitava nella sua piccola camera, il suo “atelier”. Quelle visite mi hanno fatto capire che avrei voluto essere un artista.

Lei è nato nel 1950, e ha detto che aveva sei  anni quando incontrò suo zio pittore, perciò questo avvenne nell’estate del ‘56, qualche mese prima della rivoluzione ungherese. Suo zio fuggiva dall’Unione Sovietica?

No, è venuto da immigrato e ha avuto fortuna. Poi, durante la rivoluzione, quando i confini sono stati aperti per un breve periodo, è scappato all’ovest. Lo fece subito perché seppe dalla dittatura sovietica che la libertà ungherese non sarebbe durata molto. Continuò la carriera di pittore all’ovest, ed è morto qualche anno fa, all’età di 92 anni, a Vienna.

E allora lei ha cominciato a dipingere.

In origine sognavo di dipingere. L’odore (di trementina) nella sua stanza, il sapore e la magia della pittura, mi fecero capire che io volevo essere come lui, che il mio futuro avrebbe potuto coincidere con la pittura. A nove anni ho cominciato a frequentare scuole serali d’arte e, quando ho compiuto quindici  anni,  sono entrato nella prestigiosa Scuola di Arti e Mestieri a Budapest, la migliore educazione artistica in Ungheria a quel tempo. Più tardi sono stato ammesso all’Accademia delle arti, ma appena qualche mese dopo sono stato espulso insieme ad altri, perché facevo parte di un gruppo culturale di opposizione politica di sinistra. Naturalmente dopo ho provato a entrare in altre università in Ungheria, ma senza successo, non sono mai stato accettato perché ero sulla lista nera. Con corsi serali sono riuscito ad ottenere il grado di insegnante di arte. Ma, dopo qualche anno, devo ammettere che, per la mia carriera di artista, trovarmi fuori dall’educazione accademica, non è stata la cosa peggiore che potesse succedere. Ho conosciuto quella che allora era l’arte underground, che non era accettata dal Partito Comunista, dalle scuole e dalle accademie ufficiali. L’avanguardia underground divenne il mio territorio. Per molti anni ho creduto che il bando dall’università fosse una maledizione, ma adesso capisco che quella era semplicemente una via verso la maturazione, e quindi, “grazie” a quegli idioti! Certo, dovrei essere felice di non  essere vissuto in Romania o in Unione Sovietica, dove avrebbero potuto tagliarmi la testa, o mandarmi in un gulag, come è successo a molti altri poeti o artisti di quel tempo. D’altra parte l’Ungheria era ancora un paese “socialista”, e per un artista autodidatta in molti campi era impossibile essere accettato.

Ho insegnato arti visive nelle scuole elementari e in case di cultura per quindici anni, ho lavorato come cantante di recitativo per l’ensemble di musica contemporanea Group 180 e ho fatto anche performance Fluxus, in contesti underground come lo Young Artists Club. Mentre partecipavo a degli esperimenti creativi in scuole di arte visiva, sono stato invitato a unirmi a un gruppo di ricerca, guidato da un insegnante di musica molto creativo, e sono stato accettato part-time come collaboratore in un programma di ricerca educativo, in un Istituto di Ricerca Culturale a Budapest. Sono stato bandito dall’ambiente artistico, e non ho avuto una mostra personale in un museo o una galleria statale (cioè pubblica) in Ungheria  fino al 1990 (non esistevano gallerie private nell’Europa dell’Est, tranne che in Polonia!). Nel 1995, quando ho compiuto 45 anni, c’è stata la mia prima mostra monografica in Ungheria, ed è stato un buon calcio d’inizio. Fino a quel momento ho vissuto la mia vita artistica nell’underground  e ho imparato dalle avanguardie ungheresi. Per fortuna nell’Istituto di Ricerca Culturale c’era un direttore, Ivan Vitanyi, che era veramente una persona dalla mente aperta (oggi ha 85 anni e siamo ancora amici). Fra gli altri lui scelse me, e dopo qualche anno, insieme a un mio collega (A. Bán), abbiamo cominciato a raccogliere centinaia di fotografie e film di dilettanti.

La mia maturazione artistica è complessa. Le mie esperienze fondamentali sono state con gruppi musicali, in teatri, laboratori di design, ho attraversato varie discipline, ho studiato psicologia, storia, filosofia, musica, cinema, nello studio cinematografico Béla Balázs..

Questo tipo di arte basata sul found footage divenne per me un campo di sintesi e un terreno culturalmente fertile,  dove l’objet trouvé – come il  ready-made di Duchamp – esiste già (film – fotografie), divenne per me un terreno ricco di strumenti, metodi, atteggiamenti, una “zona”, dove poter ri-contestualizzare l’arte, ‘il mondo’ e le sue passeggere registrazioni visive. La mia Weltanschaung si è formata attraverso tutte queste esperienze.

Ha potuto fare mostre subito dopo la caduta del Comunismo?

Sì, la mia prima mostra ebbe luogo nel 1995, dopo la fine del Comunismo in Ungheria. Prima ero un emarginato, ma non mi considero un martire, questo è stato solo il mio modo di crescere fuori dai problemi.

Chi sono stati i suoi maestri e non-maestri? Come ha scoperto la sua vocazione antropologica e storica?

Lo studio Béla Balázs era l’unico posto dove i cineasti e gli artisti indipendenti si potessero esprimere. Lì potevamo fare film con budget bassi, e poi sperare nel futuro. Era l’unico posto in Ungheria dove la censura agiva dopo la realizzazione di un film; in tutti gli altri studi la censura avveniva prima di qualunque ripresa, c’era una pre-censura e una autocensura. Questa struttura ha reso possibile realizzare dei film, e ha anche permesso a una cospicua comunità di artisti di lavorare allo studio Béla Balázs.

Nel 1978 sono stato alla Biennale di Venezia, e ho visto tutto, ero come una spugna nell’acqua. E nello stesso viaggio, sono andato anche in Grecia e a Parigi. Sono stato fortunato, non mi sono trovato in una situazione completamente isolata, come gli abitanti dell’Albania o dell’Unione Sovietica... Viaggiare era in qualche modo controllato, ma permesso. Per fuggire all’oppressione provinciale, al dogmatismo della censura, come i miei coetanei, cercavo di vedere e viaggiare quanto più possibile. Per esempio, ero a conoscenza di quello che succedeva nell’ambiente artistico in Polonia e Cecoslovacchia. Nel 1978 si è formato anche il “Gruppo 180”, un gruppo di musica contemporanea, che mi ha invitato a unirmi a loro e recitare in inglese, dato che lo parlavo piuttosto bene. Ho lavorato con loro e ho avuto la straordinaria occasione di conoscere dall’interno il mondo della musica contemporanea e della struttura musicale.

Anche il teatro ha avuto un ruolo importante nella mia vita. In Ungheria il teatro underground (come lo Squat, che fu poi costretto a emigrare negli Stati Uniti ) rappresentava una ricerca d’avanguardia e internazionale, una dimensione estranea ai teatri classici finanziati dallo stato. Quando la British Royal Shakespeare Company venne a Budapest con Midsummer Night’s Dream nel 1973 fu una esperienza che aprì la mente e gli occhi, e cambiò in qualche modo la parte progressiva del teatro ungherese.  Sentimmo il bisogno di conoscere quella che non era la cultura ufficiale, ma quella dell’opposizione, quella underground. Dovrei citare anche i film di Gábor Bódy, e di Péter Timár. Bódy è stato uno dei primi teorici, un influente cineasta e organizzatore (fra tante cose fu anche pioniere di immagini artistiche d’avanguardia basate sul found footage). Lui e Timár fecero il primo film found footage  (35 minuti), Private History, nel 1978: era un film interessante che apriva la mente, e usava tecniche d’avanguardia[1]. E’ stata un’ispirazione e una valida motivazione per raccogliere fotografie e film  di famiglia nell’istituto di ricerca culturale. Devo citare un amico che raccoglieva fotografie fatte male, foto con un errore, Sándor Kardos. Il suo straordinario archivio privato si chiama Horus Archive, dal dio egiziano il cui simbolo è l’occhio. Mi trovavo in una costellazione fortunata – col mio lavoro part-time all’istituto di ricerca culturale – per fondare l’Archivio Privato di Foto e Film, il PPFA, con il quale dal 1982 al 1987, abbiamo raccolto fotografie e film e fatto interviste. A quel tempo ero concentrato sugli aspetti antropologici dell’archiviare.

Vede una differenza nella vita artistica dopo la fine dell’Unione Sovietica?

Anche la situazione del sistema socialista ungherese si stava consumando per le riforme di Gorbačëv, e nel 1988 potei fare il mio primo film found footage. Ecco cosa successe.                                                                                      Un giorno, per caso, camminando per strada, ho incontrato un amico. “Che fai in questi giorni?” mi ha chiesto. Gli ho raccontato della raccolta di film, e lui mi ha chiesto “Non vuoi fare un lungometraggio con tutti quei film e foto che hai raccolto?” “Beh, sì, vorrei” “Allora, rivolgiti a me, ora lavoro al Ministero della Cultura, al reparto cinema e posso dare finanziamenti dal fondo culturale del governo”. Non potevo crederci! Perciò, ho scritto una o due pagine del progetto del film, e ho avuto i soldi che servivano – come un miracolo – e con il finanziamento, e la collaborazione dello Studio Balázs, in tre anni sono stati fatti i primi quattro episodi della serie Private Hungary.

Il film è stato trasmesso in televisione?

Sì, ma qualche tempo dopo. Si trattava di un'opera d'arte in video: prima abbiamo trasferito i film  di famiglia su video, e poi è venuta l’opera d’arte. Nello studio Béla Balázs ho trovato anche il supporto finanziario per questo progetto. Avevo una raccolta di 140, 150 ore di film di famiglia, il finanziamento dal ministero e il supporto dello studio Balázs Béla, e perfino una coproduzione con la televisione ungherese, e pure l’accesso allo studio video: potevo realizzare una produzione creativa usando la raccolta di Private Film.

Ha citato Gábor Bódy, e Péter Timár come ispirazione; e Istvan Bibó? Ha fatto un film su di lui, lo ha mai incontrato? Come lo ha conosciuto?

Dopo che sono stato espulso dall’Università delle Belle Arti (1971), sono stato espulso anche dal gruppo culturale di sinistra (Orfeo Group) cui appartenevo, perché anche loro mi consideravano anormale. Per un periodo mi sono trovato piuttosto isolato. Ero in contatto con alcuni pensatori dell’opposizione, e uno di loro, János Kenedi, mio amico, mi diede i dattiloscritti e i manoscritti di Bibó, e questo ha cambiato il mio modo di pensare. Mi ha guarito dal semplice dogmatismo marxista-leninista, mi ha liberato definitivamente dalla tradizione comunista e dai dogmi sovietici. Bibó era una specie di umanista, liberale e radicale allo stesso tempo. Il suo modo di pensare la società e la storia ungherese ha cambiato la mia visione del mondo. L’ho incontrato una volta, molto dopo che fu rilasciato dalla prigione.

Grazie a mio fratello András che studiava storia e filosofia ho conosciuto Wittgenstein e il circolo di Vienna, e con il suo aiuto anche Kant, Spinoza. Devo citare anche Ferenc Mérei, uno psicologo sociale e clinico, chiuso in prigione dopo il 1956 per via della rivoluzione: uno dei maestri della psicologia in Ungheria. Mi sono unito al suo gruppo di lavoro per imparare la psicologia individuale e di gruppo, e per 11 anni sono stato il suo unico allievo che non fosse psicologo. Faccio ancora parte di quel gruppo di lavoro, sempre come qualcosa in mezzo, essendo interno ed esterno. Mérei era un vero maestro.

A Bibo Reader - The Bishop and the Philosopher 1 - Private Hungary 13 - Film by Peter Forgacs from Peter Forgacs on Vimeo.

Dove mette il suo lavoro, nel sistema del cinema o nel sistema museale dell’arte visiva? E, perciò, a che area appartiene, quella del regista cinematografico, o quella dell’arte visiva?

Non devo scegliere. Non direi mai che i miei film sono documentari, e non mi importa dove vengono mostrati. Lascio che sia un problema per i miei contemporanei, dove e quando categorizzare e situare il mio lavoro: insieme ai documentari o ai film di famiglia, o in una mostra, o film d’arte. Comunque vorrei essere in mezzo.

Che tipo di ricerca fa, oltre a raccogliere foto e film di famiglia, e a usare degli archivi di memorie familiari e emozionali, e su che tipo di materiale indirizza la sua ricerca parallela: interviste, documenti ufficiali...?

Lo scopo di una ricerca – al di là degli obiettivi fondamentali - cambia ogni momento, e dipende dal lavoro stesso. All’inizio  del mio lavoro, nel 1982-83 ho cominciato a raccogliere film e altri documenti famigliari, e abbiamo intervistato i membri delle famiglie. Le informazioni dei proprietari dei film e delle foto erano importanti... E così siamo riusciti a raccogliere una bella quantità di materiale  prelevato direttamente presso le famiglie. (I.E. The private history of Hungary 1925-1980). Abbiamo raccolto tutto quello che le famiglie o i proprietari dei film offrivano: diari, memorie, oltre a documenti storici collegati ai film.                                                Nel 1993-94 ho realizzato Meanwhile Somewhere (Intanto da qualche parte), la terza parte di una co-produzione internazionale di un documentario televisivo (serie An Unknown War I.-V.) ed è stata una grande lezione di metodologia della ricerca. Ho imparato a usare diverse strategie e metodi di ricerca, a utilizzare media diversi, il materiale scritto (privato o pubblico), i fotogrammi (privati o pubblici),  le immagini in movimento (private o pubbliche), quelle che si collegavano con il dato progetto cinematografico. Da allora in poi mi sono concentrato per ottenere  una qualità specifica di ricerca, necessaria nella preparazione di ogni progetto. Se uno scrittore decide di scrivere di alberi, deve camminare in un bosco e studiarlo: io faccio lo stesso al momento di gettare le fondamenta dei miei film. Anche la ricerca è un processo molto interessante: si tratta di conoscere come cambiano gli esseri umani, le memorie, le culture, la poesia privata e come gli eventi casuali hanno luogo in questo universo di narrazioni parallele.

In ogni film devo scegliere il “nuovo linguaggio” di cui c’è bisogno per creare il grand format e la sintassi del contesto a più strati sovrapposti, per trovare quello che c’è da scoprire e esprimere con il film, e qualche volta si potrebbe fare solo con un certo tipo di materiale base, altre volte con strati complessi e un lavoro di molti mesi.

Uso tutto quello che posso raccogliere, per trovare tutto quello che è necessario. Per esempio, ho fatto un film sulla Grecia nella Seconda Guerra Mondiale, e ho dovuto conoscere bene tutto quello che ha a che fare con la Grecia di quegli anni: la storia della Grecia, i film greci, ma anche i cineasti nazisti. Il processo di ricerca è una strada molto interessante, e insegna  molto sul materiale che si raccoglie, entra a far parte del linguaggio del film e poi influenza la motivazione delle scelte... Per esempio quale fotografia o episodio di film familiare o allusione storica userò nella composizione. La fase preparatoria ha un ruolo fondamentale nel mio processo creativo, io ho bisogno di molto tempo di meditazione per pensare, penetrare.

Quale parte del suo lavoro è più interessante, quella sulla ricerca dei materiali o la fase di composizione ed elaborazione audiovisuale?

Beh, davvero non posso rispondere. Se la moderna neuroscienza potesse studiare il mio cervello e i miei pensieri, forse potrei provare a rispondere, ma non posso. Mi piace pensare al mio lavoro e al processo di lavoro come una piccola orchestra: ogni suonatore/strato/canale deve suonare la sua piccola parte/ruolo, ma contemporaneamente c’è una visione d’insieme con il direttore, e la cosa più importante è sentire la voce interiore... Le mie regole interiori. Questo è il punto centrale più importante. Non è architettura o lavoro scientifico: porta con sé le sue contraddizioni interne, e d’altra parte è un lavoro sensuale. Sono passati molti anni da quando ho cominciato questo lavoro, ma tutto il materiale che ho avuto, o ho visto, o mi è passato fra le mani mi trasmette ancora dei significati e tanta emozione.

I film di famiglia sono fatti di banalità, ma quello che c’è dietro, quello che io offro agli spettatori è una percezione a molti canali, l’interpretazione è libera. Io non costringo mai lo spettatore a una interpretazione pre-selezionata. Perciò chiamerei il mio lavoro un’offerta (cioè la Musikalische Opferung).

Il film di famiglia è un documento sociale molto interessante. La caratteristica principale è che si struttura in sketch narrativi ellittici, senza continuità; c’è un rapporto attivo fra il regista e le persone riprese, come sguardi rapidi verso la camera, racconto attivo fra i due e così via. Che cosa fa per ricostruire la drammaturgia della struttura narrativa, e qual è il suo lavoro filologico?

Certamente  queste discontinuità sono molto interessanti nei film d’avanguardia, ad esempio i tagli (radicali, non convenzionali), l’editing fatto in questo modo (Brakhage) vanno contro la ‘normale’ tecnica cinematografica, il montaggio classico. Ci sono metodi molto più sofisticati che il processo di editing può seguire. In ogni mio film seguo sentieri e strategie diverse, secondo il materiale e la storia che devo comporre. Per esempio in Vortice abbiamo da una parte i film di famiglia dei Petö, con tutti quegli sketch familiari, e dall’altra parte c’è la storia tragica del contesto storico della famiglia ebrea ungherese. Comprendendo il passato complesso, ‘sappiamo quello che è successo’, e ci troviamo nel futuro degli eroi dei film, dove il nostro presente è il loro futuro sconosciuto… Questo è uno dei principali paradossi psicologici e drammaturgici del genere cui sto lavorando, lo stesso che si ritrova in un ‘classico thriller di Hitchcock’, come in un film di Bressons. Sappiamo tutti che “la vittima deve morire per via del ruolo che interpreta” (in Mouschette è il personaggio che viene recitato a perdere la vita, e non l’attore in sé) ma l’attrice stessa ‘non morirà mai’. Nei miei film, gli attori/persone reali muoiono davvero, e tutti noi lo sappiamo, ne siamo consapevoli attraverso queste visioni.  Questo è un punto di vista potente, una misura veramente distintiva, una disposizione di apprezzamento: sono persone reali in un avvenimento reale in tempo reale.

Non è solo il problema del rapporto fra realtà e finzione, c’è anche il problema di quale linguaggio (narrazione, film) creare per ottenere il mio scopo. Questi film familiari non seguono un concreto percorso formale pre-pianificato: in quasi tutti i casi il regista/dilettante non riprende tutti i momenti di quello che avviene. Seleziona, forse spontaneamente e direttamente, e poi fa perfino una specie di ordine, per qualità e importanza. I piani su cui si basa il film sono di significato doppio o anche triplo, noi facciamo le nostre associazioni, sapendo quello che è successo o succederà, al di là dei reali pensieri e sentimenti del personaggio. Nel cinema è quello che si chiama “l’effetto hitchcockiano”: all’inizio del film si vede qualcuno che uccide qualcuno, ma gli altri (gli attori) nel film non lo sanno ancora. E’ la tecnica di suspense del thriller: noi siamo creature semplici, conosciamo solo il nostro passato, non quello che sarà in futuro, cerchiamo di conoscere che cosa succederà, ma non possiamo essere sicuri. La scelta che facciamo, che dipende dalle nostre possibilità, ha un ruolo importante nelle nostre vite. Come per gli attori di Psycho.

Kádár's Kiss - Private Hungary 12 - Film by Peter Forgacs from Peter Forgacs on Vimeo.

Il suo lavoro contribuisce a riscoprire i vecchi film familiari, le vecchie memorie. Interviene  su questi materiali con  un restauro a livello foto-chimico? Ha mai usato il foto-ritocco? Che succede nella fase di post-produzione e di editing?

Non ho uno schema fisso: dipende tutto dalla condizione del materiale  con il quale comincio a montare il film. Quello che posso dire è che in un film “normale” si devono evitare i graffi e le macchie sulla pellicola; nei vecchi film di famiglia si trovano spesso questi difetti. Ma quello che fa i miei film differenti, è questo nuovo aspetto: io non taglio i ‘difetti’ originali, al contrario uso i difetti per la trama. I graffi diventano parte integrante del mio lavoro: potrei dire che per quanto riguarda i difetti io sto dall’altra parte del fiume, e non mi importa se è un brutto film, se il contrasto è sbagliato. A volte intervengo sulla luce, sul contrasto, sul colore, se è necessario.

Che cosa pensa del progetto Dogma di Lars von Trier: anche lì la qualità non è la migliore, ed è un aspetto voluto, anche se gli attori sono professionisti. Condivide l’idea di von Trier?

Sono d’accordo con von Trier che una delle cose più importanti anche del fare film sono le regole del gioco. Hanno una parte molto importante anche nei miei progetti. Per ogni film devo lavorare sulle regole del gioco. Il mio ‘dogma’ è che devo trovare e applicare nuovi diversi ‘dogmi’.

Quindi non segue  un metodo fisso per i suoi film?

La sfida più grande che devo affrontare è  la raccolta del materiale e il suo inerente, invisibile ‘messaggio’ da cui devo cominciare. I film familiari con i quali lavoro non sono sempre precisi – secondo la convenzionale pratica cinematografica, e non sono portatori di messaggi universali secondo gli standard. Tutto questo deve essere creato, e questo è il mio lavoro. Ci sono delle circostanze, degli imprevisti che definiscono gli elementi di quella che sarà la forma della struttura principale, il grand format, ma come ho detto è come un romanzo, “si scrive” da solo, ma si deve comporlo, strutturarlo e formarlo sempre secondo i propri standard. Per quanto ‘simili’ siano i miei film tra loro, si notano immediatamente le differenze fondamentali, come i film di Antonioni hanno un epicentro di base, un linguaggio e un atteggiamento comune, ma ovviamente Blow up è inequivocabilmente lontano da Deserto rosso.

In Vortice lei ha detto che uno degli zii era l’amante segreto di una delle donne nella famiglia. Come ha avuto questa informazione?

Tutti i film di famiglia sono pieni di segreti, perché le parti molto importanti della vita non sono registrate, perciò sono off-screen (fuori dallo schermo), sono tabù, non sono le parti felici, non i segmenti rappresentativi di una famiglia. Questa è una parte fondamentale di un paradosso di doppia tensione (una è la morte reale, e quest’altra sono le parti nascoste, indicibili di una vita). In questa concreta questione ho avuto l’informazione da un’intervista con la figlia del cineasta Petö. I segreti sono certamente interessanti, perché si vedono più motivazioni nelle azioni delle persone, e dopo, sapendo che lei è riuscita a sopravvivere per via del marito, e anche l’amante segreto ha avuto la fortuna di sopravvivere al campo di concentramento, tutto questo dà alla storia un profilo diverso. La forma del loro futuro dava un peso diverso al loro presente, al tempo del film.

Conosce Il Dottor Živago di Pasternak che mostra il destino dell’essere umano nel vortice della storia? Ha avuto un ruolo nel suo lavoro?

Ci sono tanti ottimi scrittori che trattano questo processo, come Sebald, Nádas, Camus. Trovare la propria poetica, il proprio linguaggio – il percorso fra il privato e il vortice della storia, le giuste  proporzioni e la giusta distanza,  è una strada molto lunga. Devo trovare  una narrazione per ogni film che creo, e decisamente non sono come un pittore di icone che deve seguire i canoni per ogni pennellata. E’ sempre una specie di sfida riuscire a mostrare – attraverso la storia e la grande imago di qualcuno – le dinamiche della memoria con la narrazione… Direi in modo prosaico, che gli esseri umani, da una parte sono animali solitari, ma in genere vivono in tribù, e questi film sono occasioni per mettersi in contatto con il Sé, con il raccontare storie che  condividiamo con gli altri, che vivono nella comunità, in tempi di tregua.

Edgar Reisz in Heimat mostra la storia della Germania, in Private Hungary lei mostra la storia dell’Ungheria in 15 film, senza attori professionisti, come in Heimat. Che ne pensa?

E’una serie davvero ben fatta e unica nel suo genere, ma voglio ricordare il fatto che il regista lavorava per la TV  con una bella somma di denaro e un background di professionisti istituzionali. In confronto io sono un artigiano, e ho sempre lavorato in piccoli gruppi, in una situazione “handicappata”, totalmente diversa. David Lynch aveva molti più soldi per fare Mulholland Drive che Reisz: dietro a un bel risultato si devono vedere le condizioni dei finanziamenti e della produzione. Non è come lo scrittore, il poeta, che lavora da solo in una stanza. Per Heimat, con un regista conosciuto e una grande squadra, la Germania aveva investito lavoro e denaro; io ho lavorato quasi sempre in misura più piccola, su narrazioni lunghe ri-contestualizzando il materiale preesistente. Sono confronti validi, perché un lavoro si misura dai risultati! Prende il feedback dalla comunità professionale, dai festival, e non ultimo dal pubblico che riesce a raggiungere: quindi, mi chiede di Heimat, e non di un brutto lavoro commerciale di Michael Moore[2] (chiamato “documentario”). Non c’è molta differenza ai miei occhi fra il ‘politically correct’ e i documentari della propaganda nazista di Leni Riefenstahl. Lei aveva talento, come mai ha avuto Moore, ma entrambi sono bravi uomini d’affari.

Io creo per la contemplazione e per le discussioni e non per la propaganda, né per ideologia, o divertimento.

Roma 29 ottobre 2010

* La conversazione è stata condotta da Lorenzo Marmiroli, sulla base di una scaletta di questioni preventivamente concordate e preparate da Lorenzo Marmiroli, Valentina Valentini, Giuseppina Vignola. La traduzione dall’inglese è di Valentina Ajmone Marsan e la revisione di Valentina Valentini e Lorenzo Marmiroli (che ha curato anche la trascrizione dall’inglese).

www.peterforgacs.com


[1] Gabor Body promosse e produsse  Infermental, la prima rivista internazionale su videocassetta. Cfr. Vera Body, “L’enciclopedia elettronica” in Dialoghi, diverbi, pacificazioni ( a cura di Valentina Valentini), Sellerio, Palermo, 1990

[2] Michael Moore (1954) è un regista e sceneggiatore statunitense. In Italia è particolarmante conosciuto per i suoi film-documentari Bowling a Columbine (2002), su un massacro avvenuto in una scuola negli USA per mano di due studenti  e Fahreneit 9/11 (2004), sulla tragedia dell’11 Settembre.