Filmare i concetti, trovare le immagini: lo schermo riflettente. Parte I | VANIA BALDI

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Panoramica sull’incontro tra pensiero visivo e visione filosofica

Considerare i rapporti tra cinema e filosofia attraverso la lente prospettica dell’interesse che alcuni cineasti hanno mostrato nei confronti della vita e delle opere di certi filosofi, realizzando film a loro dedicati, significa doversi destreggiare nell’implicito confronto e nella sottesa traduzione tra teorie e linguaggi specifici, tenendo sempre a mente, inoltre, la problematicità che ciascuna di queste teorie ed ognuno di questi linguaggi trascina con sé.

Teorie filosofiche e teorie filmiche, linguaggi scritti e linguaggi audiovisivi, materialità creative ed esperienze fruitive differenti, testimoniano di un’irriducibilità reciproca dei diversi statuti disciplinari. Tuttavia, questa costitutiva dissomiglianza è risultata essere in molti casi un proficuo pre-testo per una vicendevole fascinazione, conducendo ad un’estensione potenziale di ciascun stile cognitivo verso una modalità altra di pensare e di pensarsi in quanto prassi descrittivo-conoscitiva[1].

Accennare ad una panoramica sul percorso storico di queste riflessioni inerenti i rapporti tra cinema e filosofia significa risalire più o meno alla nascita del cinema stesso: le questioni che solitamente sono state sollevate in questo arco di tempo lungo poco più d’un secolo hanno avuto per oggetto temi squisitamente filosofici, quali: la relazione tra la realtà e la sua riproduzione, la potenzialità cognitiva del mezzo cinematografico, la rappresentabilità delle idee astratte, la spettacolarizzazione dell’immaginario collettivo, l’aspetto informativo e conoscitivo cui il cinema ha contribuito favorendo l’accesso alla visione di una pluralità di contesti emozionali, comportamentali ed esperienziali.

Di fianco a queste interrogazioni attraversanti l’intera storia del cinema ve ne sono state altre, relativamente più recenti, più sensibili al contagio con la teoria, la pratica e l’esperienza cinematografica. Piuttosto che riflettere semplicemente sul cinema, si è cominciato a «pensare al cinema, nel cinema, grazie al cinema, e dunque con il cinema»[2]. Questo allargamento di prospettiva è interpretabile come l’esito di incroci diversi tra le due discipline, come la risultante del graduale intersecarsi delle rispettive curiosità e delle seguenti sperimentazioni teoriche.

Da parte di certa filosofia lo sforzo è stato quello di cercare di studiare e legittimare il cinema come evento di pensiero, come pratica concettuale, sollecitando, così, di rimbalzo, un’autoriflessione critica sul proprio modo di creare concetti e ragionare sulla realtà, ovvero, avvicinandosi all’ipotesi che filosofare possa essere come pensare cinematograficamente; da parte di certo cinema, invece, l’incrocio col pensiero filosofico si è registrato nel riflettere sul potenziale euristico dell’immagine filmica e nell’attenzione con il proprio lavoro verso tematiche ed autori della filosofia, lavorando, in altre parole, sulla costituzione possibile di un cinema filosofico.

Filosofi e registi promuovono, così, interessi e ricerche comuni; ci si domanda, in breve, da parte di chi con interesse filosofico è creativamente sollecitato dal linguaggio cinematografico (e viceversa): è possibile fare un film specificamente filosofico, «cioè un film che non sia meramente didattico, parenetico o propagandistico, ma costituisca esso stesso un’opera filosofica relativamente autonoma?»[3]. L’esperienza filosofica è di esclusiva pertinenza della parola scritta, oppure è possibile stabilire delle correlazioni tra il linguaggio tradizionale ed il mondo delle immagini, dei suoni, dei corpi e degli spazi? Può esistere «un pensiero visivo, sonoro, rituale, spaziale?»[4]. Ed ancora: si può considerare la scrittura filosofica come surdeterminata da quella filmica? Il metodo scritturale del regista o del tecnico del montaggio, non è come quello del filosofo che opera sartorialmente tra idee, visioni, citazioni, ritmi…? «Attraverso il cinema, la filosofia, la pratica della filosofia come scrittura-pensiero, potrebbe scoprire la propria natura cinematografica. Non solo cinema e filosofia si legano, ma il cinema scorre nella filosofia e le fornisce strumenti e consapevolezza»[5].

Si può allora scorgere un’aria di famiglia, un percorso comune, tra cinema e filosofia laddove sia rintracciabile, pur secondo declinazioni diverse, quell’ethos creativo e speculativo capace di smuovere (senza destituire) i singoli confini disciplinari, rielaborandoli attraverso la costituzione di un metodo espressivo più consapevole delle diverse pratiche del riflettere e del proiettare senso.

Quale cinema? Quale filosofia?

Prima, tuttavia, di analizzare alcuni esempi di specifiche traduzioni sullo schermo di temi e personaggi filosofici, bisogna puntualizzare come, al di là delle implicazioni connesse ai motivi euristici e tecno-metodologici che legano la ricerca filosofica a quella cinematografica, sia indispensabile stabilire a quale filosofia e a quale cinema si fa particolarmente riferimento dal punto di vista del motivo poetico ricercato e della strategia teorica perseguita; risulta necessario capire quale presupposto o idea di cinema e di filosofia agisce da sfondo (e da propulsore) alle riflessioni e alle pratiche più approfondite e mature sulla loro convergenza. Ci sono modi e modi di fare cinema e di pensare al cinema, e altrettanto, quindi, del fare filosofia e del metterla in scena.

Visionando tra film con oggetto esplicito la vita e il pensiero di alcuni filosofi ci si può imbattere difatti in questioni essenziali che paiono fungere da spartiacque, e cioè: quale tipo di cinema bisogna intendere riguardo al «pensare cinematograficamente»? E che tipo di filosofia sarebbe sottinteso alla ricerca di un «cinema filosofico»? O meglio: l’intrinseca doppia ascendenza fra queste due modalità diverse di guardare al mondo e di rappresentarlo, può avere un’altra motivazione e legittimazione oltre a quelle della tensione etica e della prassologia linguistico-metodologica di esprimere visioni e/o pensiero?

Tali quesiti trovano un’importante consonanza con alcuni dibattiti contemporanei, interni allo stesso ambito cinematografico, sulla crisi dell’autonomia delle immagini e sulla loro svalutazione. La loro insufficienza, il loro depotenziamento, sarebbe testimoniato paradossalmente dall’inflazione visuale prodotta dall’attualità televisiva, dall’home video o dalla pubblicità, inflazione e bulimia ottica che compromette lo statuto singolare dei prodotti visivi cinematografici, oscurando la cosiddetta «epoca delle immagini del mondo».

Come aspirare e pretendere, allora, alla realizzazione di film che detengano una qualità linguistico-visiva fondamentalmente differente da quella quotidiana? A quale esperienza espressiva bisogna attingere per aggirare l’effetto narcotizzante ed ottundente che le immagini banalizzate della diffusione tecno-mediatica hanno sulla nostra capacità di meraviglia ed ammirazione? Interrogativi che introducono indirettamente verso la ricerca di quel tipo di presupposto teorico comune alla filmografia e alla filosofia di cui qui si discute.

Su Socrate, su Giordano Bruno e sulla filosofia mancata

Per dar forza allo spirito di questa ricerca di precisazione, su quale «identità» e «modello» di cinema e su quale «identità» e «modello» di filosofia può essere modulata la mutua convergenza di poetica e strategia teorica, si vuole dare un esempio di cinema dedicato alla filosofia che, per contrasto, indica e conferma la necessità di tale indagine.

I film cui si fa riferimento sono quelli di Roberto Rossellini, Socrate (1970) e di Giuliano Montaldo, Giordano Bruno (1974). Pellicole rivolte alla vita di due cosiddetti eretici condannati a morte per la loro modalità «libera» di ragionare, ma risultante trasgressiva (perché insidiosa) per la cultura dominante delle rispettive epoche. Film nei quali sono rappresentati momenti salienti della biografia dei personaggi e in cui vengono accennati metodi, contenuti e qualche citazione della loro filosofia. Naturalmente non c’è nessuna velleità da critico cinematografico nelle considerazioni che si desiderano fare (ammesso, in ogni caso, che se n’abbiano le capacità); ciò che interessa, piuttosto, è ricavare lo spirito di fondo di queste operazioni. Entrambi i film possono essere valutati come sostanzialmente didattici e didascalici, non è un caso che la circolazione di questi lungometraggi sia molto diffusa nelle scuole e che vengano utilizzati come supporto didattico per l’insegnamento delle materie pedagogiche e filosofiche.

Ora, per quanto il valore formativo e lo sforzo storiografico di queste opere cinematografiche siano evidenti, risulta difficile sostenere che vi sia una riflessione filosofica, o quantomeno una sua sensibilità, a indirizzarne la messa in scena. C’è senz’altro, tuttavia, quell’operazione di cucitura, di segmentazione-composizione, immanente ad ogni costrutto linguistico-ideativo, che, pertanto, costituirebbe un requisito di familiarità tra i due diversi statuti disciplinari. Anche qui, però, c’è da mettere in risalto, anticipando un tema affrontato da Jacques Derrida, che c’è montaggio e montaggio.

Non si tratta, infatti, di richiamare, al cinema, il vecchio dibattito su filosofia e narrazione, né di operare una semplice traduzione da un registro linguistico all’altro; all’interno di un linguaggio didascalico il senso del montaggio non può che essere pre-vedibile, la cucitura sullo schermo dei personaggi concettuali Socrate e Giordano Bruno non è, dunque, originariamente filosofica quanto, invece, lo sarebbe quella che mira a «trovare i modi per mettere l’invisibile nella scena del visibile»[6], a pensare (questa volta) non su la filosofia, ma nella e con la filosofia.

L’attenzione, allora, va riposta su altre operazioni cinematografiche dedicate a temi e personaggi speculativi; su quelle che perseguono l’intento per cui la realtà filmica non rappresenti distaccatamente il contenuto filosofico oggetto del film, che non si limiti ad una neutrale messa in scena del prodotto speculativo, ma costituisca essa stessa parte del contenuto filosofico, che tenda a corrispondere, nella sua «scrittura», a quell’ethos pratico-creativo soggiacente ad ogni teoria generatrice di senso. Filmografie che si concretizzano, in breve, in un programma dal sapore filosofico che materialmente si esplicita nell’idea visiva di uno stile-contenutistico[7]. Operazioni cinematografiche, infine, in cui la realtà filmica possa avere, pertanto, la forza di porsi come realtà radicalmente altra, e non come in rapporto mimetico con quella esterna[8].


[1] P. A. Rovatti, Di alcuni motivi che legano la filosofia al cinema, «aut aut», 309, 2002, pp. 29-37.

[2] Ibidem, p. 29.

[3] M. Perniola, L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino 2000, p. 50.

[4] 4 Ibidem.

[5] P. A. Rovatti, Di alcuni motivi che legano la filosofia al cinema, cit., p. 34. Questa riflessione è un riferimento esplicito al pensiero del filosofo francese Jacques Derrida su cui si tornerà più avanti.

[6] G. Scarafile, Proiezioni di senso. Sentieri comuni tra cinema e filosofia, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2003.

[7] P. A. Rovatti, Di alcuni motivi che legano la filosofia al cinema, cit., p. 36.

[8] Pare opportuno in proposito richiamarsi ad una di quelle osservazioni che stanno alla radice delle nostre riflessioni sul senso ideale, immaginativo e visionario che sta inscritto in ogni pratica creativa, compresa quella filosofica: «Ciò che i greci chiamano phantasiai, noi lo designiamo con visiones, visioni immaginative, tramite le quali le immagini di cose assenti sono rappresentate all’anima, così che ci sembri di percepirle con gli occhi e di averle presenti davanti a noi» (Quintiliano, Institutio, 6, 2, 29, cit. in J. P. Vernant, Nascita di immagini, il Saggiatore, Milano 1982, p. 119). Ci sarebbe da aggiungere, e si aggiungerà meglio tra breve, che un fenomeno analogo si presenta nell’evento spettatoriale.