Fare il proprio tempo! Oltre l’onnipresenza del presente (PARTE II) | VANIA BALDI

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(PARTE I)

 

Regimi di storicità

É stato lo storico François Hartog a coniare il termine presentismo, proprio per dar conto del rapporto che la società occidentale ha instaurato col tempo da almeno un paio di decadi. Prendendo spunto dalla sollecitazione di de Certeau a non rimuovere il senso del tempo, presente e latente in ogni ricerca storica, Hartog tenta di inquadrare l’eziologia del fenomeno presentista comparando prospettive sociologiche, filosofiche e antropologiche.[1]

Per lo storico francese, una volta tramontata l’epoca delle «cronosofie» e delle grandi «storie universali», bisogna rifarsi ai «regimi di storicità» per interpretare i diversi simboli e sintomi di uno spirito del tempo. Cosa sono i regimi di storicità? Sono quelle categorie (di passato, presente e futuro) attraverso cui intratteniamo e organizziamo (piú o meno consapevolmente) la nostra esperienza del tempo. Un’esperienza, questa, che varia di epoca in epoca, come di cultura in cultura.

Ogni società, ieri come oggi, non può che fare i conti con l’articolazione di tali categorie, ma bisogna riconoscere, come suggerisce Hartog, che in tale articolazione non si può che contare sul proprio presente[2]. Allora, seguendo i consigli di Hartog, come continuare a costellare questo presente presentista?

Si tratta di un tipico derivato della postmodernità? Si tratta di un surrogato dell’ideologia capitalistica, con l’obsolescenza programmata dei sogni e dei bisogni che diffonde? Riguarda la compresenza planetaria delle tante trasmissioni telematiche di idee, di immagini e di valori? È l’epifenomeno di quel nuovo tipo di esperienza psico-sociale denominata sensologia, la cui caratteristica generale è di nutrirsi di rispecchiamenti, ossia di ciò che viene e riflette dal di fuori, generando un senso ambivalente di dipendenza e impersonalità?

Dal «reincantamento del mondo» di Michel Maffessoli, con la fascinazione per quelle occasioni mondane che vincolano e legano misticamente gli individui tra loro, alla dissoluzione della categoria storica di «azione» in «comunicazione» di Mario Perniola, con la denuncia di un risvolto culturale «miracolistico» e «traumatico» nel leggere e vivere i fenomeni sociali, passando per la globale e confondente «circolarità mimetica delle immagini» di Michael Taussig, cosí come per l’«hypermodernitè» di Gilles Lipovetsky basata sulla sovrabbondanza di opzioni e sollecitazioni a «vivere piú esperienze» (anche temporali), stiamo sempre circunavigando quei regimi di storicità in opera nel nostro rapporto col tempo individuati da François Hartog.[3]

Da queste riflessioni emerge, tra le altre cose, che l’eccesso mediale e la definitiva sfasatura di quell’articolazione prospettica dell’identità occidentale basata sulla tensione tra lo spazio dell’esperienza e quello dell’attesa ci riportano a un nuovo e peculiare primato storico della contingenza[4]. Un primato, però, vissuto non necessariamente come qualcosa da cui doversi o potersi emancipare.

Si assiste al paradosso per cui, a detrimento di una tradizionale organizzazione collettiva del tempo sociale (il tempo delle feste, delle vacanze, del lavoro, dei pasti, delle messe...), si dispone di una maggiore libertà di amministrare singolarmente il tempo, ma soffrendone la sensazione di esserne perseguitati (o per dirla con Jean Baudrillard, «ostaggi»).

É questa una variante fondamentale rispetto alle riflessioni post-storiche che si succedono dalla seconda metà del Novecento. Da un lato é condivisibile un’esperienza di «cristallizzazione culturale», ovvero quella particolare condizione che interviene, in un determinato ambito culturale, quando le possibilità in esso contenute sono percepite come tutte sviluppate nel loro patrimonio fondamentale[5]. Da un altro lato é altrettanto verificata un’infinita e reiterata compresenza di «nuove» suggestioni, che se pur non ispirate da trasformazioni storico-sociali creano parimenti l’«illusio» di un gioco sociale fondamentale da giocare.[6]

Ciò che dunque risulta problematico di questo presente è la difficoltà ad uscire da uno stadio di presunta attività, o interattività, piegata alla cogenza dell’istanstaneismo.[7]

Basti pensare a quel rapporto patologico con il tempo che va sotto il nome di «cronofagia»[8]. Tale compressione spazio-temporale attraversa sempre più ambiti della vita quotidiana e dell’agire sociale, arrivando a produrre una catena di effetti psico-somatici come, per esempio, l’insonnia e altre disfunzioni dell’organismo ad essa collegate come i disturbi alimentari. Dormendo poco, infatti, è stato riscontrato che il nostro corpo non produce quell’ormone (la leptina) che permetterebbe di regolare la sensazione dell’appetito, determinando una tendenza all’obesità.[9]

 

Il passato é ora, ma anche il futuro

La cultura dell’immediato sembra essere, quindi, una qualità predominante degli stili di vita contemporanei. Hartog ne rileva discendenze e convergenze anche rispetto alla cultura organizzativa del lavoro impostasi con Le Nouvel esprit du capitalisme[10]. Non solo il consumo o le relazioni sono just-in-time, anzi non potevano non esserlo, viste le trasformazioni epocali nel mondo produttivo e mercantile. Come riferisce Hartog, la mobilità, il cambiamento, la duttilità e la versatilità divengono criteri dirimenti di valorizzazione.

Il regime di storicità presente, pertanto, sembra essere intriso di un’euforia disincantata, per non dire triste. Per un antropologo come Franco La Cecla ciò che si esprime attraverso la dipendenza dall’immediato della presa diretta é una ricerca di garanzia: quella di essere presenti e di stare tra altre presenze. E tale ricerca può essere vista come una metafora dell’estrema nostalgia, sia rispetto al tempo che passa e che non si riesce a fissare, sia, come vedremo subito, rispetto alle presenze in carne e ossa con cui prendere parte ad esperienze comuni.[11]

Una nostalgia che però non si traduce nella saudade lusitana, che piuttosto è una nostalgia del possibile e dell’immaginabile. La saudade richiede una sensibilità surrealista, sospende la temporalità per approssimarsi al suo mistero, mentre il presentismo la nega, stressato com’è dall’iperrealtà: esso è ansioso di anticipare il futuro simulandolo e proiettandolo sul presente con calcoli di rischi e probabilità (Hartog sottolinea il profluvio di sondaggi, la ricerca spasmodica di scoop, la tendenza a cercare anticipazioni come emblemi della determinazione di voler prevedere e predire). Ma soprattutto il presentismo teme l’oblio, e proprio per questo crea condizioni ed eventi auto-commemorativi, riproducendo gelosamente il presente come fosse già passato (quanti musei sono nati nell’ultimo decennio intorno alle cose piú comuni e banali?).[12]

Un esempio ulteriore di tale regime di storicità é rappresentato dai simboli mediali che promuovono l’uso delle carte di credito. Prende piede un’era in cui non è piú il presente che si sacrifica per guadagnare in futuro (sotto forma di risparmi che diventeranno acquisti), ma è il futuro che si sacrifica per esperire l’eccitazione del presente (sotto forma di acquisti che diventano debiti futuri).[13]

Non si tratta, quindi, di interesse e curiosità per il futuro (No future), ma di «misurare sul presente gli effetti di questo o quel futuro»[14]. Si parte dal presente, e si rimane lì. Estesa e interminabile, la luce conferita ed emanata dal tempo del presente non permette neanche al passato di passare, perché si tenta di cristallizarlo nella sua retrospettiva contemporanea.

Hartog paragona perciò il presentismo, con la sua tendenza all’eternità, al tota simul, con il quale Agostino, e Plotino prima di lui, definivano l’eternità, dove «nulla passa e tutto è nello stesso tempo presente».[15]

 

I media non sono una finestra sul mondo

In questo cortocircuito, come accennato, i dispositivi mediatici e tecnologici giocano sempre piú un ruolo cruciale; essi sono al tempo stesso causa ed effetto del nuovo regime di storicità presentista. La velocità e la mobilità, la vetrinizzazione e la trasparenza, gli archivi di memoria e la riproducibilità, i nicknames, gli avatars e la manipolabilità di ogni dato e informazione fanno da cornice al fenomeno in questione. Tutto ciò solleva anche dal carico di dover ricordare, o come in alcuni dei films sopra citati contribuisce a creare un immaginario in cui è possibile «esonerare» parti di sé stessi attraverso processi di cancellazione di memoria. Si puó dire allora che si registra per poter credere di aver catturato, una volta per tutte, la multiformità del presente come un trofeo.

Tale onnipresenza del presente sembra essere simile ad una condanna da espiare per avvalersi di una sensazione di libertà. Pare un paradosso, ma forse l’esperienza della cosiddetta presa diretta, del transitare tra flussi di informazioni, dello scambio di notizie e di rappresentazioni con mondi e persone piú o meno note offre, nei paesi detti sviluppati, l’unica parvenza di vitalità possibile (e a basso costo). L’intrattenimento mediale, nella sua sterminatezza, è una pratica attraverso cui pare possibile aspirare alla fruizione della vita.[16]

Il presentismo sembra, ancora, una condanna che allo stesso tempo ci garantisce una sensazione di ubiquità e partecipazione. Paradossalmente, inchiodandoci al “Tutto, subito!”, ci dona l’illusione di essere co-protagonisti, basti pensare al tempo passato davanti ai nostri schermi (portatili e non).

Nell’enfatizzare il tempo reale si esorcizzano in verità le diverse realtà e temporalità del tempo, e così le soggettività che solo attraverso di esso si possono costruire. Per questo si può arrivare a dire che il quinto potere risiede nella capacità dell’informazione di far dimenticare come di ritmare le attenzioni, generando un’agenda piú o meno conscia di ciò che vale e non. Questa forma di informare produce tanto l’emergenza quanto l’assenza di certe realtà.[17]

Nella coazione a ripetere generata dal presentismo mediatico, si dipana una sorta di rito tecnologico di possessione. S’inseguono bisogni e desideri attraverso un’attitudine che però li frustra, perché affidata passivamente a dei loro surrogati: «i surrogati sono talmente convincenti da sostituirsi alle realtà per cui stanno».[18]

Il presentismo ci rimanda così a una fenomenologia dell’evocazione della viva presenza e della ricerca di effettualità, se pur mediata da elaborate «immagini tecniche»[19]. Cercare compagnia e assicurarsi di non essere soli rimanda a una matrice antropologica della nascita dei media. La cosiddetta «MeCommunication» o l’«autocomunicazione di massa», meticolosamente descritta da Manuel Castells, rappresenta una conferma estrema del voler essere percepiti come soggetti presenti: vedere e farsi vedere come contattabili e raggiungibili.

Nel dimenticare che una radice della nascita dei media risiede nell’astrazione in figure e simboli piani dell’onnilaterale e quadridimensionale realtà, per potergli dare così un indirizzo e un senso; nel rimuovere che i media sorgono per mettere in comunicazione persone e luoghi; nell’ignorare che i processi di codificazione sono sempre serviti a seminare e far raccogliere conoscenze, informazioni e storie, si corre il rischio di confondere che ciò che vediamo e costruiamo attraverso di essi non è il mondo, ma determinati concetti relativi al mondo. Perché il mondo siamo noi, e per questo è illusorio pensare di poterlo fissare e storicizzare in presa diretta.

L’ossessione per il presente e per la presenza cela la rinuncia a credere nel tempo come galantuomo, rivela un senso d’impotenza e di vergogna verso l’inesorabile procedere temporale[20]. Narcisisticamente si pretende di tenere sotto vetro la complessità del reale o di ignorarla, con le sue dimensioni tragiche e creative, con le sue altalene ed i suoi fuori onda.

Purtroppo o per fortuna, lo stesso patto col diavolo è precario. Purtroppo o per fortuna, facciamo storia e passiamo in essa anche come semplici cloni o spettatori. Non rimane allora che decidere se usare le piattaforme (affettive, cognitive e tecnologiche) che si hanno a disposizione per fare il proprio tempo, o per illudersi di non esserne affetti.


[1] F. Hartog, Regimi di storicità, Palermo, Sellerio, 2007.

[2] Per Norbert  Elias, ad esempio, «i concetti di passato, presente e futuro esprimono la relazione che intercorre tra una serie di mutamenti e l’esperienza che ne fa una persona o un gruppo. Soltanto in riferimento ad un uomo che lo sta vivendo un certo momento appartenente a una serie continua di avvenimenti assume il carattere di presente mentre altri assumono il carattere di passato e di futuro. Nella loro qualità di simbolizzazioni di periodi vissuti, queste tre espressioni rappresentano non solo una successione, come l’anno o la coppia “causa-effetto”, ma anche la presenza simultanea nell’esperienza umana di queste tre dimensioni del tempo. Si potrebbe dire che passato, presente e futuro, benché si tratti di tre diverse parole, costituiscono un solo e medesimo concetto». N. Elias, Saggio sul tempo, Il Mulino, Bologna 1996, p. 86.

[3] Cfr. M. Maffesoli, La contemplazione del mondo. Figure dello stile comunitario, Costa&Nolan, Genova 1997; M. Perniola, Del sentire, Einaudi, Torino 1991 e Id., Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009; M. Taussig, Mimesis and Alterity. A Particular History of Senses, Routledge, New York 1993; G. Lipovetsky L'écran global. Culture-médias et cinéma à l’âge hypermoderne, Éditions du Seuil, Paris 2007 (con Jean Serroy).

[4] Hartog fa riferimento a Reinhart Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Il Melangolo, Genova 1986. Secondo il filosofo tedesco, la modernità occidentale si è strutturata su una concezione del senso storico configurato intorno a un vettore temporale di unidirezionalità e linearità, a un’indistinta metafisica progressista, su cui si è innestata una costante tensione tra «orizzonte d’aspettativa» e «spazio di esperienza». La crisi storica della costellazione simbolica della temporalità cumulativa e irreversibile, di matrice ebraico-cristiana, conduce verso un’esperienza mondanizzata e secolare del divenire storico; questa ri-configurazione della semantica storica genererebbe un orizzonte di senso all’interno del quale si radica una tonalità emotiva considerata post-storica: caratterizzata cioè da un senso di «svuotamento» della carica simbolica del futuro, dalla sua riduzione a «dejà vu», o «futuro passato». Sempre sullo steso tema molto utili gli studi di Giacomo Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, Roma-Bari, Laterza, 1994, e di Paolo Virno, Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

[5] Così ad esempio Giorgio Agamben: «l’uomo ha ormai raggiunto il suo télos storico e non resta altro [...] che la depoliticizzazione delle società umane, attraverso il dispiegamento incondizionato della oikonomía, oppure l’assunzione della stessa vita biologica come compito politico (o piuttosto impolitico) supremo». G. Agamben. L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 79-80.

[6] È stato Pierre Bourdieu a fare un uso strategico della nozione di illusio. Tale nozione rinvia all’esperienza di investimento individuale e collettivo in un determinato campo del mondo sociale, investimento modulato da un interesse «implicito» e «pratico» dipendente, a sua volta, dal grado di partecipazione e di credenza che si ha in esso.

[7] In uno studio realizzato da Yahoo e OMD sulle pratiche mediali dei nordamericani si conclude che gli utenti vivono giornate equivalenti a 43 ore, di cui 16 dovute all’interazione con diversi media e tecnologie. Cfr. The Media Evolution of the Global Family in a Digital Age, 2006, disponibile su: http://l.yimg.com/au.yimg.com/i/pr/familyaffair_final.pdf.

[8] G. Paolucci, (a cura di), Cronofagia. La contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione, Guerini e Associati, Milano 2003.

[9] Cfr. V. Codeluppi, Biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

[10] Luc Boltanski – Eve Chiappello, Le Nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999.

[11] F. La Cecla, Surrogati di presenza. Media e vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano 2007. Ma giá per Hanna Arendt «il contrassegno dell’epoca moderna non è, come pensava Marx, l’autoestraneazione, bensì l’estraniazione rispetto al mondo» (Vita activa, Bompiani, Milano, 1989, p. 249).

[12] F. Hartog, op. cit., pp. 152-181. Hartog riprende inoltre la provocazione di Immanuel Kant presente nel Il conflitto delle facoltà: «Come è possibile la storia a priori? Risposta: allorché colui che fa predizioni realizza e organizza egli stesso gli eventi che preannunzia».

[13] Su ciò cfr. G. Lipovetsky, op. cit.

[14] F. Rachline, Qu’arrive-t-il au présente?, in “À la recherche du réel”, Association Droit de suite, mai 2001, n. 18.

[15] F. Hartog, op. cit., p. 239.

[16] Così ad esempio un grande architetto contemporaneo: «La retina é il punto di vendita: vedere é comprare. Nel moderno capitalismo da casinò la cittadinanza é una carta di credito, la democrazia un gioco d’azzardo». M. Sorkin, Brand Aid. Or, the Lexus and the Guggenheim, in “Harvard Design Magazine” n. 17, autunno 2002-inverno 2003, p. 30.

[17] Boaventura de Sousa Santos, Para uma sociologia das ausências e uma sociologia das emergências, in “Revista Crítica de Ciências Sociais”, n. 63, Coimbra 2002.

[18] F. La Cecla, op. cit., p. 25.

[19] Questa di immagine tecnica è un’espressione di Vilém Flusser. Per la straordinaria «comunicologia» da lui elaborata si vedano La cultura dei Media, Bruno Mondadori, Milano 2005 ed Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo, Fazi, Roma 2010. Per Flusser ad ogni processo storico di codificazione corrisponde uno specifico rapporto con la realtà e con il tempo. Alle «immagini tradizionali» bidimensionali corrisponde una circolarità rappresentativa e interpretativa della realtà che rimanda a una concezione ciclica e magica del mondo: sarebbe la fase «preistorica»; al «testo scritto» corrisponde una linearità progressiva e causale, regolata da rappresentazioni concettuali sulla realtà: sarebbe la fase «storica»; alle «immagini tecniche» corrisponde una rappresentazione computazionale e permutabile dei concetti sulla realtà: sarebbe la fase «post-storica».

[20] S. Bolognini, Lo Zen e l’arte di non saper cosa dire, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp.117-127. Per lo psicoanalista il «ragazzismo» contemporaneo annuncia il passaggio da una società regolata dal senso di colpa ad un’altra regolata dal senso della vergogna. Sempre più difficile, oggi, essere orgogliosi di non essere più ragazzi.